giovedì 6 novembre 2008

Italiani all'estero: soufflè di luoghi comuni



Immagine tratta da: http://digilander.libero.it/magicoferio/archivio2007/guarda/tony.gif

Arriva per tutti il momento di perdere parte della propria innocenza per arrendersi all’evidenza: i luoghi comuni guidano il mondo.
Non serve spostarsi in una città multiculturale, vibrante ed aperta allo straniero come Londra; i tuoi stereotipi ti seguono dovunque. Londra ospita svariate comunità di culture diverse e spesso distanti; moltissimi ogni anno si spostano in questa città per necessità o per carpirne lo spirito, eppure qualcosa rimane immutato. Tra i lavoratori che affollano il settore della ristorazione e gli studenti delle sue Facoltà scaturisce spesso lo stesso “dialogo” permeato di luoghi comuni e comodi stereotipi.

Lungi da me tentare di dimostrare che non esistano casi evidenti e meritevoli di collaborazione interraziale e interculturale, ma un fenomeno cala come spada di Damocle sulle teste degli ospiti londinesi. Che luoghi comuni incontra l’italiano che arriva a Londra? Come viene etichettato il siciliano migrante in cerca di istruzione?
Parte della nostra storia ci rincorre anche qui, anche in un luogo che potrebbe ritenersi “neutro”.

In molte delle Facoltà londinesi si studiano culture complesse e intrise di storia e tradizione: la musulmana, la cinese, la giapponese e molte altre che sono ritenute “culture di minoranza” ed in quanto tali da proteggere.
Tra paradigmi d'integrazione e political correctness si tenta di non affibbiare ad un’etnia un marchio che la possa in alcun modo denigrare. In questo la diplomazia insita nella cultura inglese è straordinariamente efficiente: garantisce a tutti, almeno in linea teorica, il diritto all’integrazione e alla ricerca, con un po’ di fortuna e virtù, di un futuro roseo da costruire in questa città.

Cosa turba dunque questo perfetto meccanismo? Scavando poco sotto la superficie si incontra un luogo comune noto a quasi tutti gli italiani che abbiano avuto la fortuna di spostarsi all’estero: l’italiano è mafia, pizza e politica in stato di degrado.
Si potrebbe dire che non c’è niente di totalmente falso in queste affermazioni, ma il candore e l’assoluta spensieratezza con la quale sono pronunciate brucia nel profondo l’animo di chi, consapevole dei compromessi da affrontare rimanendo sul suolo italiano, ha deciso di spostarsi altrove.
Ma quello che desidererei portare all’attenzione di tutti è la concezione comune del siciliano. Pare quasi scontato dire che questi è a maggior ragione vittima dei luoghi comuni, talvolta meritatamente, talvolta meno.

Il siciliano non è ritenuto una minoranza seppure abbia subito secoli di domini, seppure la sua cultura e tradizione scompaia sotto il peso della corruzione e dell’oblio, seppure anche in suolo italiano stenti a mantenere un’immagine positiva. Il siciliano non è una minoranza perché è parte della cultura dominante, la sua autocritica permette agli esponenti di altre culture di candidamente sottolineare momenti bui della sua storia. Il siciliano non ha alcuna difficoltà a spostarsi all’interno dell’Europa e la giusta compensazione per tale fortuna è la mancanza di ritegno di molti altri stranieri nell’etichettarlo.

A cosa serve nel XXI secolo ricordare all’italiano che Mussolini ha condizionato la sua storia? Non c’è forse stata anche una forte tradizione partigiana? A cosa serve ricordargli che la mafia è viva e vegeta anche oggi, gli anni bui della Democrazia Cristiana, la corruzione e il suo misero presente? A cosa serve ricordare all’italiano che dovrà probabilmente emigrare perché la sua università sarà distrutta nel profondo? A chi giova ricordargli che contese razziste si consumano nel territorio italiano macchiato del sangue di chi l’Italia l’ha fatta?
A niente, specie se tutto ciò che si ricava da questi mementi sono solo critiche da quattro soldi con l’unica funzione di aggiungere colore folkloristico all’immagine dell’italiano, al pari dell’ulivo saraceno, il cannolo, il fico d’india e il marranzano siciliano.

A chi si chieda se questo è un modo per martirizzare il povero italiano controbatto subito che non c’è nessun premio che l’italiano medio meriti oggi. Tuttavia, come ogni altra storia e cultura quella italiana non merita forse di essere studiata nel profondo prima di essere etichettata sotto facili paradigmi? Si dimentica facilmente che anche oggi c’è una resistenza silenziosa o meno al degrado, che per ogni giornalista noto che si svende, molti altri lavorano nel sottosuolo culturale italiano.
Qualcuno potrebbe giustamente ribattere che l’italiano, e in particolar modo il siciliano, attua esattamente lo stesso processo contro gli ospiti immigrati.
Ebbene questo non giustifica la generalizzazione, specie se per ogni caso c’è sempre un’eccezione. E’ necessario anche sottolineare che in Italia si investe ben poco in promozione della cultura italiana e che il passato e presente letterario e storico italiano passa molto più spesso di bocca in bocca. Non è tuttavia inaccettabile pensare di giudicare qualcosa che si conosce solo parzialmente?
Tentare di estrarre dalla storia di secoli avvenimenti dei quali non tutti gli italiani (o almeno diamo per scontato sia così) sono fieri non è forse come pensare ai tedeschi come il popolo che ha permesso lo sterminio degli ebrei, agli americani come Bronx e pistole, ai brasiliani come Favelas, donne discinte e promiscuità e ai musulmani come poligami e terroristi? Queste culture complesse sono strumentalizzate nella cristallizzazione della loro immagine peggiore.
Il paradigma del nemico, del diverso, del guerrafondaio, del discinto è facilmente sfruttabile ai peggiori scopi.
Seppure solo una minoranza dovesse pensare all’italiano in termini di mafia, pizza e politica in degrado, non è proprio quella minoranza strisciante che condiziona l’opinione pubblica? Quanto è difficile in termini pratici convincere un altro straniero che ogni italiano sia mafioso e ogni musulmano terrorista? Poco, pare. Il fatto che questa opinione da quattro soldi circoli per bocca di studenti acculturati di prestigiose Facoltà è incredibilmente pericoloso.

Non parlarne affatto è dunque la conclusione perfetta? No, se si ci premuri di essere informati sulle cause, gli effetti e le eccezioni o se si sia perlomeno disposti a cambiare la propria idea. Se qualcuno, come nel mio caso, si premurerà di sottolineare che non c’è nulla di sensato nel trarre facili conclusioni sulla nostra storia un sorriso benigno apparirà sulla faccia dell’interlocutore o nel migliore dei casi un lungo silenzio imbarazzante.

Bruna Scuderi


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1 commento:

Anonimo ha detto...

Ti capisco benissimo, cara Bruna... ti capisco... Quel che dici è assolutamente riscontrabile nei fatti... ma è il risultato di una storia politica, sociale, culturale (solo neglin ultimi decenni) che ha portato l'Italia ad essere la nazione Clown per eccellenza... Ci meritiamo tutto questo a mio avviso, e dico "ci" perché, anche se io e tu e salvo e qualcun altro non ci vediamo dentro quel gruppo stereotipato, il 70 % degli italiani lo fa, e ne sembra divertito!! In Sicilia poi non ne parliamo! C'è ancora gente che giustifica la mafia, perché "il pesce grosso, una volta abbuffato, lascierà qualcosa anche ai pesci piccoli...", manco fossimo a Portopalo di Capo Passero! Io non mi sento già da tanto tempo italiano, figuriamoci siciliano... Peccato non si possa diventare apolide, almeno penso (non mi sono informato in tal senso)... se un giorno scoprirò che non avere cittadinanza sarà possibile, manderò a fare il culo la cara e vecchia culla della cultura per diventare un cittadino del mondo tutto, magari il terzo...