domenica 23 novembre 2008

"Il dialogo tra le religioni non è possibile. La fede non si può mettere tra parentesi"


Ho appena letto la recensione di papa Benedetto XVI al libro di Marcello Pera (attuale senatore ed ex presidente del Senato). Non so se dirmi più sconcertato o disgustato. Già il titolo che Corriere.it ha deciso di scegliere per la recensione è emblematico: "Il dialogo tra le religioni non è possibile. La fede non si può mettere tra parentesi".

Citerò i passi che ritengo "emblematici", aggiungerò un breve commento e lascierò che vi facciate la vostra idea (non ho velleità da pensiero unico, io...):

-
"Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall’analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale."
Come dire "ma che multiculturalità???", la chiave è una cultura predominante e illuminata (non a caso ci si tiene molto a sottolineare le radici cristiane dell'Europa..) che assorbisca tutte le altre culture...risultato: no multiculturalità, si uniculturalità!

- "Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari."
Ovvero, dialogo presuppone che tutti i "dialoganti" siano sulla stessa base? Non è possibile! Noi abbiamo la Verità! Quindi trasformiamolo in una conversazione nella quale "noi" stiamo sulla cattedra e da lì bacchettiamo tutte le imprecisioni delle altre presunte religioni...insomma torniamo allegramente all'epoca dell'apologia...

- " [...] la parabola dell’etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismo ma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi."
Con liberalismo intende la dottrina del mercato che si regola da sé, del laissez faire, ovvero del "capitalismo"? Perché se la risposta fosse si, allora sarebbe divertente collegarlo con una dottrina del bene..."Capitalismo cattolico"...brividi...e non ci saranno più credit crunch...o nel caso ci fossero, non vi preoccupate perché il Paradiso è dei poveri!

P.S. il papa, in occasione del credit crunch, sosteneva, se non ricordo male, che tutto ciò fosse al fatto che le persone avessero pensato più ai soldi che a dio...sarebbe interessante provare a far andare i super manager a messa più spesso e vedere se qualcosa cambia nel mondo dell'alta finanza...

Fonte della recensione: http://www.corriere.it/cultura/08_novembre_23/lettera_papa_benedetto_f01cee2c-b93f-11dd-bb2c-00144f02aabc.shtml

Salvo Di Rosa




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venerdì 14 novembre 2008

In nome del popolo italiano...

Ci siamo. Dopo più di 7 anni è arrivato il momento della sentenza! Ieri l'ho attesa tutto il giorno aspettando di leggere l'esito su corriere.it (l'unico legame con la realtà italiana). L'ho letta oggi... e sinceramente non mi aspettavo questo "risultato" (fra virgolette poiché non ottenere niente di significativo non dovrebbe essere considerato un risultato...)... Altro che pessimismo cronico, siamo alla frutta...
Comunque ricopio un articolo del Corriere perché non me la sento di parlarne, mi vengono i conati...

La rabbia in tribunale Le stesse persone, gli stessi cori della notte del blitz
Quel senso di ingiustizia che torna dopo sette anni

DAL NOSTRO INVIATO GENOVA — «Vergogna, vergogna». Come sette anni fa, davanti ai cancelli di quella scuola. Con le stesse persone, gli stessi cori, in più soltanto la stanchezza e la frustrazione di una attesa lunghissima e vana. Mancano i lampeggianti e il cordone di carabinieri dagli occhi spaventati che tenevano lontano i no global. Il resto è uguale a quella notte del 21 luglio 2001. L'inizio e la fine, un cerchio che si chiude perfettamente con scene e sgomento identici. La rabbia, «assassini, assassini», qualcuno che cerca di lanciarsi in avanti, un caldo folle, sudore e lacrime sui volti delle vittime definitivamente convinte di aver sbagliato ad affidarsi alla giustizia. Oggi come allora. Due Italie, una sempre più forte dell'altra, come dimostra il sorrisino di superiorità del giudice Barone al partire dei cori, mentre si ritira dopo la lettura del dispositivo che commina tredici condanne, quelle che non contano nulla, 36 anni contro i 108 invocati dall'accusa, sedici assoluzioni. E alle vittime lo sfregio di risarcimenti irrisori (una media di 4.000 euro) rispetto alle richieste delle parti civili (20.000 euro a testa). La sentenza fa a pezzi le tesi dell'accusa. Avvalora in pieno la linea fin dall'inizio proposta dal Viminale, quella delle poche mele marce in un cesto florido e sano. Le condanne sono acqua fresca, sempre e comunque mitigate. Lasciano intravedere una certa riluttanza nel propinarle, e la riduzione ai minimi termini della gravità dei fatti. Ad esempio, il vicequestore Michelangelo Fournier, quello della «macelleria messicana», prende due anni comprensivi di non menzione, con le attenuanti prevalenti sulle aggravanti. Condannato, ma giusto un poco. I magistrati avevano strutturato la loro requisitoria in tre parti.

Il VII Reparto mobile di Vincenzo Canterini, i funzionari accusati di aver firmato falsi verbali di perquisizione, sequestro e arresto, compresi quelli riguardanti le celebri molotov false, e i vertici apicali. È sempre apparso chiaro che il processo si sarebbe giocato sulla parte centrale. Il «taglio» del collegio giudicante è stato draconiano. Colpita solo la base della piramide. Gli unici a pagare davvero per la vicenda delle molotov false, che dovevano essere la prova regina della pericolosità dei 93 no global arrestati alla Diaz, sono stati i meri esecutori della parte iniziale dell'inganno, i soli riconosciuti. L'autista Michele Burgio, alla guida del defender che porta le false prove alla Diaz, il vicequestore Pietro Troiani, ex collega di Canterini, che le prende in consegna. Assolta la pedina seguente, il vicequestore Massimo Di Bernardini, che nel domino dell'accusa costituiva l'anello di congiunzione con la catena di comando di quella notte. Ma le anomalie nella gestione delle molotov cominciano infatti dopo che Troiani se ne spossessa, in un susseguirsi di comportamenti che è lecito definire irragionevoli. Ogni eventuale legame superiore è stato invece reciso: le false molotov furono una libera iniziativa di due oscuri gregari. La prova della colpevolezza dei vertici apicali di quella notte, Francesco Gratteri e Giovanni Luperi, non si è mai formata durante il processo. Ma le firme degli altri funzionari su verbali che attestano il falso sono sempre sembrate l'ostacolo più massiccio alla assoluzione di tutto il gruppo dirigente. In quattro anni e 170 udienze, la difesa non ha mai prodotto un teste che sostenesse la veridicità del contenuto di quei verbali. Nessun testimone. Ma anche qui la scelta dei giudici è stata minimale: l'élite dei funzionari italiani di Polizia si è fatta buggerare in massa dalle poche mele marce dei ragazzi di Canterini, ai quali va evidentemente riconosciuta una sagacia non comune. Fa male vedere un vecchio che urla e piange. Arnaldo Cestaro, 70 anni, una spalla rotta e tre operazioni per rimetterla a posto, inveisce contro lo Stato italiano, in piedi su una poltrona dell'aula bunker. Accanto a lui le altre vittime di quella notte, Lena Zulke, la ragazza tedesca che divenne l'immagine simbolo, una maschera di sangue portata via in barella. E poi tutti gli altri, un avvocato maturo e compassato come Vittorio Lerici che vorrebbe buttare la toga «per la delusione», e quel coro martellante, «vergogna, vergogna», i reduci no global attoniti, Vittorio Agnoletto spaesato come non mai. Il caldo che pulsa alle tempie, le urla, le ferite ancora aperte, il senso di ingiustizia. Come quella notte.

Marco Imarisio
14 novembre 2008

Tratto da: http://www.corriere.it/cronache/08_novembre_14/senso_ingiustizia_genova_g8_9423b8f8-b214-11dd-8d3c-00144f02aabc.shtml

Per un resoconto della sentenza: http://www.corriere.it/cronache/08_novembre_13/diaz_g8_sentenza_a2bf270c-b1c0-11dd-a7b7-00144f02aabc.shtml

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giovedì 6 novembre 2008

Italiani all'estero: soufflè di luoghi comuni



Immagine tratta da: http://digilander.libero.it/magicoferio/archivio2007/guarda/tony.gif

Arriva per tutti il momento di perdere parte della propria innocenza per arrendersi all’evidenza: i luoghi comuni guidano il mondo.
Non serve spostarsi in una città multiculturale, vibrante ed aperta allo straniero come Londra; i tuoi stereotipi ti seguono dovunque. Londra ospita svariate comunità di culture diverse e spesso distanti; moltissimi ogni anno si spostano in questa città per necessità o per carpirne lo spirito, eppure qualcosa rimane immutato. Tra i lavoratori che affollano il settore della ristorazione e gli studenti delle sue Facoltà scaturisce spesso lo stesso “dialogo” permeato di luoghi comuni e comodi stereotipi.

Lungi da me tentare di dimostrare che non esistano casi evidenti e meritevoli di collaborazione interraziale e interculturale, ma un fenomeno cala come spada di Damocle sulle teste degli ospiti londinesi. Che luoghi comuni incontra l’italiano che arriva a Londra? Come viene etichettato il siciliano migrante in cerca di istruzione?
Parte della nostra storia ci rincorre anche qui, anche in un luogo che potrebbe ritenersi “neutro”.

In molte delle Facoltà londinesi si studiano culture complesse e intrise di storia e tradizione: la musulmana, la cinese, la giapponese e molte altre che sono ritenute “culture di minoranza” ed in quanto tali da proteggere.
Tra paradigmi d'integrazione e political correctness si tenta di non affibbiare ad un’etnia un marchio che la possa in alcun modo denigrare. In questo la diplomazia insita nella cultura inglese è straordinariamente efficiente: garantisce a tutti, almeno in linea teorica, il diritto all’integrazione e alla ricerca, con un po’ di fortuna e virtù, di un futuro roseo da costruire in questa città.

Cosa turba dunque questo perfetto meccanismo? Scavando poco sotto la superficie si incontra un luogo comune noto a quasi tutti gli italiani che abbiano avuto la fortuna di spostarsi all’estero: l’italiano è mafia, pizza e politica in stato di degrado.
Si potrebbe dire che non c’è niente di totalmente falso in queste affermazioni, ma il candore e l’assoluta spensieratezza con la quale sono pronunciate brucia nel profondo l’animo di chi, consapevole dei compromessi da affrontare rimanendo sul suolo italiano, ha deciso di spostarsi altrove.
Ma quello che desidererei portare all’attenzione di tutti è la concezione comune del siciliano. Pare quasi scontato dire che questi è a maggior ragione vittima dei luoghi comuni, talvolta meritatamente, talvolta meno.

Il siciliano non è ritenuto una minoranza seppure abbia subito secoli di domini, seppure la sua cultura e tradizione scompaia sotto il peso della corruzione e dell’oblio, seppure anche in suolo italiano stenti a mantenere un’immagine positiva. Il siciliano non è una minoranza perché è parte della cultura dominante, la sua autocritica permette agli esponenti di altre culture di candidamente sottolineare momenti bui della sua storia. Il siciliano non ha alcuna difficoltà a spostarsi all’interno dell’Europa e la giusta compensazione per tale fortuna è la mancanza di ritegno di molti altri stranieri nell’etichettarlo.

A cosa serve nel XXI secolo ricordare all’italiano che Mussolini ha condizionato la sua storia? Non c’è forse stata anche una forte tradizione partigiana? A cosa serve ricordargli che la mafia è viva e vegeta anche oggi, gli anni bui della Democrazia Cristiana, la corruzione e il suo misero presente? A cosa serve ricordare all’italiano che dovrà probabilmente emigrare perché la sua università sarà distrutta nel profondo? A chi giova ricordargli che contese razziste si consumano nel territorio italiano macchiato del sangue di chi l’Italia l’ha fatta?
A niente, specie se tutto ciò che si ricava da questi mementi sono solo critiche da quattro soldi con l’unica funzione di aggiungere colore folkloristico all’immagine dell’italiano, al pari dell’ulivo saraceno, il cannolo, il fico d’india e il marranzano siciliano.

A chi si chieda se questo è un modo per martirizzare il povero italiano controbatto subito che non c’è nessun premio che l’italiano medio meriti oggi. Tuttavia, come ogni altra storia e cultura quella italiana non merita forse di essere studiata nel profondo prima di essere etichettata sotto facili paradigmi? Si dimentica facilmente che anche oggi c’è una resistenza silenziosa o meno al degrado, che per ogni giornalista noto che si svende, molti altri lavorano nel sottosuolo culturale italiano.
Qualcuno potrebbe giustamente ribattere che l’italiano, e in particolar modo il siciliano, attua esattamente lo stesso processo contro gli ospiti immigrati.
Ebbene questo non giustifica la generalizzazione, specie se per ogni caso c’è sempre un’eccezione. E’ necessario anche sottolineare che in Italia si investe ben poco in promozione della cultura italiana e che il passato e presente letterario e storico italiano passa molto più spesso di bocca in bocca. Non è tuttavia inaccettabile pensare di giudicare qualcosa che si conosce solo parzialmente?
Tentare di estrarre dalla storia di secoli avvenimenti dei quali non tutti gli italiani (o almeno diamo per scontato sia così) sono fieri non è forse come pensare ai tedeschi come il popolo che ha permesso lo sterminio degli ebrei, agli americani come Bronx e pistole, ai brasiliani come Favelas, donne discinte e promiscuità e ai musulmani come poligami e terroristi? Queste culture complesse sono strumentalizzate nella cristallizzazione della loro immagine peggiore.
Il paradigma del nemico, del diverso, del guerrafondaio, del discinto è facilmente sfruttabile ai peggiori scopi.
Seppure solo una minoranza dovesse pensare all’italiano in termini di mafia, pizza e politica in degrado, non è proprio quella minoranza strisciante che condiziona l’opinione pubblica? Quanto è difficile in termini pratici convincere un altro straniero che ogni italiano sia mafioso e ogni musulmano terrorista? Poco, pare. Il fatto che questa opinione da quattro soldi circoli per bocca di studenti acculturati di prestigiose Facoltà è incredibilmente pericoloso.

Non parlarne affatto è dunque la conclusione perfetta? No, se si ci premuri di essere informati sulle cause, gli effetti e le eccezioni o se si sia perlomeno disposti a cambiare la propria idea. Se qualcuno, come nel mio caso, si premurerà di sottolineare che non c’è nulla di sensato nel trarre facili conclusioni sulla nostra storia un sorriso benigno apparirà sulla faccia dell’interlocutore o nel migliore dei casi un lungo silenzio imbarazzante.

Bruna Scuderi


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